La teoria della Retrogenesi e i programmi intergenerazionali tra anziani con demenza e bambini
Che significato ha la vita se non c’è la memoria, se viene meno l’identità della persona, se si rompe il legame con il proprio essere, con il proprio passato, con gli affetti e con il mondo? (Trabucchi, 2000). La demenza può essere paragonata ad un “ladro di anime, memorie e affetti”, una malattia che giorno dopo giorno sgretola tutto ciò che si è costruito durante l’esistenza.
Per trovare un senso è fondamentale un approccio multidisciplinare ed infatti, nel corso degli anni, si sono sviluppate, intorno a questa malattia, numerose teorie e approcci con l’intento di rispondere ai tanti interrogativi e fornire alla persona con demenza un aiuto efficace per vivere nel modo migliore possibile.
Seppur la progressione della malattia possa venir simboleggiata a una stanza che si svuota gradualmente, la teoria della Retrogenesi (Reisberg et al., 1999) si presenta come un modello positivista che guarda alle potenzialità e alle capacità residue, cercando di attenuare le mancanze e le difficoltà che incombono. Il modello della Retrogenesi viene definito come il processo attraverso il quale i meccanismi degenerativi invertono l’ordine di acquisizione in condizione di normale sviluppo. Secondo la teoria, la progressione della demenza segue un decorso fisso ed inverso allo sviluppo ontogenetico, percorrendo a ritroso gli stati progressivi dello sviluppo del bambino proposti dal fondatore dell’epistemologia genetica, Jean Piaget (1952).
L’idea che le persone “tornino indietro” durante la vecchiaia non è un concetto poi così nuovo. Già nel 423 a.C, Aristofane evidenziava in un’opera teatrale che “i vecchi sono due volte bambini” e negli anni ’60, un modo per descrivere la malattia di Alzheimer era “ritorno ad una seconda infanzia”. Ma il modello della Retrogenesi risulta essere talmente robusto al punto che gli stadi della malattia possono venire tradotti, euristicamente, in età evolutive corrispondenti.
Attraverso alcune scale di stadiazione (GDS-Global Deterioration Scale; FAST- Fuctional Asessment Staging) sviluppate da Reisberg et al. (1982) per monitorare nel tempo il decorso cognitivo e funzionale delle demenze, è stato possibile confrontare e far corrispondere ogni stadio della malattia alle fasi dello sviluppo proposte da Piaget (stadio senso-motorio, pre-operatorio, operatorio concreto e formale operatorio).
Partendo da questo assunto, si parla di Retrogenesi cognitiva riferendosi a come il declino di certe capacità cognitive nella demenza segua l’ordine inverso delle fasi di sviluppo intellettuale teorizzate da Piaget.
Anche il decadimento funzionale, sequenziato da una persona con demenza, inverte l’ordine di acquisizione delle stesse funzioni nello sviluppo umano (Retrogenesi funzionale). Infatti, la progressione della scala FAST, descrivendo al contrario le capacità acquisite da un bambino, permette di tradurre ciascuno suo stadio in un’età evolutiva corrispondente o nell’età in cui ciascuna abilità viene generalmente acquisita. Di notevole interesse è il fatto che la quantità di tempo sufficiente ad un bambino per acquisire ogni capacità è approssimativamente la stessa necessaria ad una persona con demenza per perderla.
Molti cambiamenti emotivi e comportamentali che si associano alla malattia di Alzheimer ricordano quelli che si osservano nei loro “coetanei” in età evolutiva. Ad esempio, le reazioni tipiche degli stadi avanzati della malattia (esplosioni verbali di rabbia, paura dell’acqua o del buio) possono essere interpretati come il corrispettivo delle “crisi d’ira” di bambini in età prescolare (Retrogenesi emotiva).
I riflessi dello sviluppo (come il riflesso radicolare, di suzione, di presa di mano e del piede, di estensione plantare di Babinski) che spariscono nei primi anni di vita, ricompaiono negli stadi avanzati di malattia (Retrogenesi neurologica).
La scomparsa di tali riflessi nei bambini e la progressione delle perdite neuropatologiche osservate nella demenza sono correlate allo schema di mielinizzazione dei neuroni del cervello. Gli stadi del cambiamento nella malattia invertono il pattern e il sequenziamento della mielinizzazione nello sviluppo normale, contribuendo a spiegare il perchè proprio le ultime aree cerebrali ad essersi mielinizzate (durante la crescita) siano anche quelle più vulnerabili alla morte e alla diminuzione di glucosio in fase di malattia (Retrogenesi neuropatologica).
La comprensione del fenomeno della retrogenesi acquisisce importanza, teorica e pratica, in quanto permette di fornire un indicatore dell’età evolutiva di una persona e questo consente l’identificazione di attività e cure congrue con la fase che l’adulto con demenza sta attraversando. Le cure necessarie rivolte ad una persona con demenza, in un particolare momento della malattia, possono essere particolarmente simili a quelle apportate ai bambini con stessa età evolutiva. A tal proposito, programmi intergenerazionali, che permettono l’incontro fra persone con demenza e bambini con età evolutiva simile, potrebbero servire al soddisfacimento di esigenze di sviluppo di entrambe le parti coinvolte, creando un punto di apertura e comunicazione tra mondi ancora troppo distanti. Infatti, da un lato, i bambini stimolano le persone anziane alla reminiscenza di eventi passati o dimenticati e contemporaneamente possono beneficiare dei ricordi e conoscenza da loro evocati. Questi programmi, se efficacemente strutturati, possono contribuire alla loro crescita personale e alla comprensione dei cambiamenti del ciclo di vita, oltre che alla riduzione dei pregiudizi e degli stereotipi negativi legati all’invecchiamento. Dall’altro lato, le interazioni con i bambini, se ripetute nel tempo, offrono alle persone con demenza la possibilità di riprendere ruoli professionali significativi e di riconoscere punti di forza e capacità rimanenti, in un contesto che offre loro l’opportunità di sentirsi ancora utili e altruisti. Inoltre, attraverso i programmi intergenerazionali si è riscontrato un aumento del benessere, dell’autostima, un miglioramento del profilo cognitivo e delle abilità sociali e una diminuzione del livello di agitazione, di wandering e di confusione.
Per concludere, e come se volessimo rispondere alla domanda iniziale, il senso è che ogni malato rimane, nonostante la malattia, una persona che continua a sentire, emozionarsi e a tendere sempre e comunque verso un fine che è quello dell’armonia e dell’equilibrio. Per comprendere l’altro volto della demenza, bisogna saper “entrare in punta di piedi” nel mondo dell’anziano e in questo, i bambini, essendo i più liberi dai pregiudizi, potrebbero essere coloro che lo sanno fare meglio.
Francesca Lanciano
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Trabucchi, M. (2000). Le demenze (II edizione). Torino: UTET.
- Reisberg, B., Franssen, E. H., Hasan, S. M., Monteiro, I., Boksay, I., Souren, L. E., & Kluger, A. (1999). Retrogenesis: clinical, physiologic, and pathologic mechanisms in brain aging, Alzheimer’s and other dementing processes. European Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience, 249(3), S28-S36.
- Aristophane. (1938). The clouds (Anonymous translation). In W. J. Oates & E. J. O’Neil (Eds.), The complete Greek drama (p. 595). New York: Randme House. (original work published in 423 BC).
- Piaget, J. (1952). The Origins of Intelligence in Children.
- Reisberg, B., Ferris, S. H., de Leon, M. J., & Crook, T. (1982). The Global Deterioration Scale for assessment of primary degenerative dementia. The American journal of psychiatry.